“Mine vaganti” è l’ultimo film di Ferzan Ozpetek, l’ottavo per il regista turco naturalizzato italiano: ancora una volta è la condizione del gay il soggetto della pellicola, a testimonianza di una volontà di stringere il campo creativo su un unico sfondo.
La camicia da forza su cui Ozpetek ha circoscritto il suo raggio d’azione, sebbene rispettabile, è uno dei punti di debolezza della sua cinematografia che, seppur sempre rinnovata nelle forme, risulta passibile di una certa stanchezza in quanto a sostanza.
Il film in questione avrebbe dovuto rappresentare la maturazione del regista dopo le altalenanti performance che hanno contraddistinto il suo passato dietro la macchina da presa, in ogni caso segnato anche da diversi momenti di plauso in quanto a critica e botteghino.
L’opera di Ozpetek non mi ha mai entusiasmato molto: personaggi mai realmente originali e sceneggiature un po’ stantie sono talloni d’Achille troppo duri da sormontare per i disparati momenti apprezzabili della filmografia dell’italo-turco.
Il film più che la prova di maturità, diviene l’infuso mescolato di Ozpetek, una sorta di sgabuzzino dove metterci il buono e il brutto del proprio passato: della freschezza e del rinnovamento, all’ottavo film quanto meno auspicabile, nemmeno l’ombra. Confusione, tanta confusione!
La storia è ambientata a Lecce, ai giorni nostri: protagonista una ricca famiglia della borghesia pugliese, rispettata nella cittadina per la fiorente attività economica legata alla produzione industriale di pasta, ma sconvolta al proprio interno dalla scoperta dell’omosessualità di quel figlio maggiore (Preziosi) che avrebbe dovuto garantire la continuità alla gloria passata.
“Mine vaganti”, un titolo che si spiega a partire da quelle linee caratteristiche dei vari personaggi che scoppiano in sequenza, ognuno imbottito dell’esplosivo del proprio vissuto.
Il problema centrale sta proprio nell’eccesso di tritolo: ne esce un rombo assordante e quasi fastidioso che non coinvolge mai appieno lo spettatore. Fabula ed intreccio costruite intorno alle singole vite, più che alla storia stessa: un film che si apre e si chiude con l’invadenza di un personaggio che risulta quello meglio curato ma quantomai pesante nell’economia del racconto.
E’ la nonna, la fondatrice del pastificio “Cantone”, tormentata dall’amore proibito per il fratello di suo marito che ne segnerà l’esistenza: i suoi acciacchi e quindi la sua sedentarietà la costringono a diventare spettatrice esterna delle vicende familiari.
Basterebbe questo a riempire di sugo il piatto del pubblico, che da questa pietanza ne avrebbe già ricavato sufficiente sazietà: ma per Ozpetek non basta e allora la sceneggiatura prende i toni del grottesco quando si imbottisce il tutto di un ulteriore figlio gay (Scamarcio), che si scopre studiare a Roma non Economia ma Lettere, spinto dal suo amore per la scrittura e non per l’imprenditoria, come avrebbe voluto papà. E’ proprio nella capitale che ha dato sfogo alla sua natura omosessuale, concretizzatasi in un fidanzamento con l’uomo che ama. Nell’ingordigia si arriva quando il quadretto familiare si arricchisce della presenza di una zia (Elena Sofia Ricci) molto miope e amante dell’alcol, segnata nella sua sfera affettiva da una fuga d’amore a Londra finita con l’improvvisa sparizione dell’amato: il personaggio è caratterizzato da un continuo incubo che la vede oggetto di un rapimento che in realtà lei tanto desidererebbe (la speranza è relegata alla finestra perennemente aperta) per sfuggire all’inutilità della quale si contorna il suo ruolo in famiglia.
Lo stordimento, accentuato anche dal senso ondivago delle riprese, non tarda a diminuire in nessun punto della proiezione: la famiglia Cantone cerca di attutire il colpo con un accordo economico con un’altra importante famiglia del posto. Se ne ricava solo altro casino: il figlio più grande, nel frattempo cacciato di casa per la sua tendenza omosessuale, è sostituito alla guida dell’azienda dal più piccolo, nel frattempo arrivato da Roma, con l’intento di cucire i rapporti con il nuovo partner commerciale rappresentato da un padre e una figlia. L’effetto normalizzante di questo legame è solo utopia: la ragazza si scopre in tutta la sua stranezza, vittima della perdita della madre in età adolescenziale e soffocata dagli impegni di lavoro in cui l’ha trascinata il papà.
Non poteva mancare il bacio, seppur casto, tra la fanciulla problematica e Scamarcio che con lei instaura il classico rapporto dei film di Ozpetek (vedi quello tra Margherita Buy e Accorsi in “le fate ignoranti”): eterosessualità e omosessualità in un vortice privo di regole e forse di senso.
Gradevole, e un po’ pulp, la venuta degli amici di Scamarcio da Roma, rigorosamente gay: nessuno in famiglia, tranne la nonna, sa del segreto del più piccolo e quindi i ragazzi vengono accolti come dei semplici amici conosciuti all’università. Tanti equivoci e tanti qui pro quo mettono a soqquadro il già instabile equilibrio familiare: la morte della nonna sarà l’ultima pietra di questo castello di sabbia di cui sconsiglio la visione.
Per gli attori convincente la prova di Ennio Fantastichini nei panni del padre di famiglia poco incline ad accettare la natura di suo figlio e per questo anche vittima di un infarto. Meno quella della moglie, Lunetta Savino, che sembra portarsi dietro ancora troppo i panni della cameriera sempliciotta della serie “Un medico in famiglia”.
Apprezzabile la prova della Occhini nei panni della nonna; sempre brava la Sofia Ricci, forse un po’ vittima di un personaggio più da romanzo. Buona prova anche per Nicole Grimaudo nei panni, comunque, di un personaggio molto mal curato. Ordinaria amministrazione per Scamarcio-Preziosi.
Voto 4 a Ozpetek e Ivan Cotroneo, che ha co-firmato il soggetto e la sceneggiatura: brutto davvero!